
Vivendosi un’infanzia poco spensierata, piena di responsabilità, verso le quali non ha le risorse per rispondere, un bambino genitorializzato, entrando nell’adultità, presenta molta confusione sul suo posto giusto in ogni campo: nello studio, nel lavoro, nelle relazioni…
Tende a prendere sulle spalle responsabilità che non gli competono, si cimenterà in imprese impossibili, per esempio aiutare chi non può essere aiutato, come nelle relazioni d’amore con un partner che ha deciso di non aiutarsi da solo, nella speranza, nella convinzione e nella presunzione, che basti l’amore per salvarlo.
Da dove nasce il complesso del figlio genitoralizzato?

Una premessa importante per spiegare questa tendenza è che ogni figlio, specie nei primi anni di vita, è folle d’amore per i genitori, al punto che darebbe la vita pur di salvarli e salvaguardare il loro benessere. Quando i genitori si mostrano incapaci di fornire accudimento e amore, sono bisognosi di cure, probabilmente perché a loro volta non hanno ricevuto amore dai loro stessi genitori, il figlio cerca di sopperire questa mancanza, amando per entrambi. O, ancora, amando al posto di un genitore assente il genitore rimasto, prendendo un posto che non gli compete, con un amore che non è filiale, ma di tutt’altra natura.
Nel chiedere a queste persone di rappresentare la loro famiglia in una costellazione individuale o di gruppo, porranno molto probabilmente loro stessi accanto al genitore superstite, e quindi nella posizione di partner, o alle spalle dei loro genitori, invertendo così l’ordine di grandezza all’interno della famiglia.
Sono i figli cresciuti con le seguenti regole, che si sono presentate spesso nella loro crescita:
– non disturbare i tuoi genitori.
– diventa presto indipendente, anche se non hai le risorse per farlo.
– cresci e anche in fretta!
– sostieni i tuoi genitori nelle difficoltà, anche se sei troppo piccolo per farlo.
– fatti carico delle emozioni dei tuoi genitori, e delle loro fragilità, anche se sei troppo piccolo per comprenderle.
Nasce così il copione del figlio perfetto, che non delude mai, che deve (o meglio, si sente obbligato a) eccellere in tutto, che, in età giovane-adulta, vuole decidere al posto dei genitori, perché non li ritiene in grado di scegliere per conto loro.
E resta leale al ruolo genitoriale con cui è cresciuto nel tempo. Nei casi più estremi, tanto sarà l’amore verso i genitori da accudire, da dare la vita nel vero senso della parola: rinunciare ad avere figli, perché i genitori stessi sono i propri figli. Alcuni casi di sterilità, specie femminile, derivano a una tale inversione genitoriale, perché una donna che non è stata figlia o resterà sterile o, mettendo al mondo dei figli, chiederà loro di occuparsi totalmente di lei, come lei si è occupata dei propri genitori. Ma lo stesso vale per gli uomini.
Sono convinto che chi si affaccia a un percorso psicologico riveli più o meno consciamente la sua disponibilità a rompere la catena di coazioni a ripetere nella sua famiglia.
Faccio spesso rappresentare la famiglia agli utenti che si affacciano al mio studio. Almeno tre generazioni. Nei casi dei figli genitorializzati spesso di scopre che la posizione scomoda che loro assumono è decisamente simile a quella che i loro genitori hanno con i nonni. La differenza tra loro e i genitori, spesso, è nella percezione di scomodità che porta le persone in un percorso psicologico in cui si autorizzano a rompere la catena, a riprendere il loro legittimo posto di figli.
La definizione “rompere la catena” potrebbe evocare l’idea di strappi decisi e definitivi. È tutto il contrario, è un percorso che deve avvenire senza forzature, nel rispetto dei tempi della persona, delle sue risorse e fragilità, avendo costantemente accanto a loro un esperto che tiene conto del sistema nel suo complesso. Perché se si guarda solo al singolo senza tenere conto del sistema in cui è inserito, si perde di vista il principio di lealtà alla famiglia, a cui tutti, inconsciamente, rispondiamo. Se ci alleiamo con il paziente contro la sua famiglia, è molto probabile che lo stesso abbandonerà il percorso, restando soggiogato al sistema contro cui si metteva, consapevole che, nonostante la rabbia, la frustrazione, non ha le risorse per emanciparsi e per prendere la sua legittima posizione di figlio.
Giordano è un giovane adulto di 25 anni, studente di ingegneria. Da due anni a questa parte lavora, facendo ripetizioni su varie materie, e mette i soldi da parte per mantenersi il più possibile e non pesare sui suoi genitori. Ha un fratello, Giacomo, ed entrambi i genitori in casa, ma solo la madre lavora, mentre il padre, in palese depressione, non riesce a trovare lavoro.
Due sono i campanelli di allarme che mi attivano il pensiero che Giordano sia un figlio genitorializzato: il rifiuto di un 29 a un esame fondamentale per lui, quello con il professore con cui vuole sostenere la tesi, e il fatto che non ha detto ai genitori che va dallo psicologo, pagandosi le sedute da solo.
In un caso simile, verrebbe da pensare che un ragazzo che lavora per mantenersi una terapia e uscire con gli amici, e che arriva a rifiutare un 29, perché non è un 30 o un 30 e lode, sia un ragazzo brillante, il classico ragazzo d’oro.
La situazione, indagando più a fondo, è ben diversa: il rifiuto del 29 viene vissuto come un vero e proprio fallimento. Dietro alla volontà di racimolare i soldi, c’è la convinzione che i genitori già facciano troppo per pagargli gli studi (ed è “persino” fuori corso di alcuni mesi), che sia immorale chiedere anche 10 euro per un cinema in più. Giordano ha rinunciato a tutto, persino a suonare il pianoforte, piuttosto che dipendere da loro.
In molti casi litiga con la madre, spingendola a lasciare il padre, dal momento che non è in grado di occuparsi di loro, o la rimprovera per i soldi spesi, lasciando intendere che lui è più adulto della madre stessa, e soprattutto del padre, che appare più come il bambino della situazione. In molte situazioni, Giordano è colui che risolve i conflitti a casa, decidendo al posto loro il da farsi.
Appare perfezionista, ai limiti dell’ossessione. Tendenza frequente nei figli genitorializzati.
Alla mia domanda sul perché i genitori non debbano sapere che lui ha iniziato un percorso psicologico, mi risponde che, dal momento che anche il fratello è in terapia, per loro sarebbe un fallimento scoprire di aver cresciuto due figli con dei problemi, e avrebbe sensi di colpa enormi, se pensassero questo.

Nessuno in famiglia occupa il suo legittimo posto. Giordano guarda al padre, che guarda al proprio, da cui non è mai stato apprezzato. Si sente scomodo alle spalle dei genitori, ma sarebbe disposto a invertire la posizione, solo se chiarissero tra loro e risolvessero i loro problemi.
Ha la convinzione che, se anche avesse le possibilità economiche per uscire di casa, non riuscirebbe emotivamente. Che farebbero poi i genitori? Si lascerebbero? Ce la farebbero senza i figli in casa? Una bella trappola , che emerge anche di notte, con i continui risvegli con incubi che poi non ricorda o difficoltà ad addormentarsi. Perché chi trascura i propri bisogni emotivi, spesso, fatica ad abbracciarsi nel momento di massima intimità che abbiamo con noi stessi: nel sonno.
Il percorso di Giordano è un guardare a se stesso, vedere i propri bisogni costantemente, ciò che prova e sente. Legittimandosi, a poco a poco, a riprendere il suo ruolo di figlio.
Bibliografia
Boszormenyi-Nagi, I., Spark, G., (1973) Lealtà invisibili: La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale. Astrolabio, Roma.
Masciullo, F., (senza anno), Quando i figli diventano adulti troppo presto, Psicoanalisinews.
Ronchi, D., (2016), Come funzionano i sistemi familiari: la genitorializzazione, Blog Daniele Ronchi.