Caro Visitatore,
Qualche tempo fa mi è stata proposto di recensire L’incensiere di Valerio Dalla Ragione.
Qui la sinossi:
Con vostra grande sorpresa vi scoprite essere lo scomodo bersaglio della classe dominante della vostra città, una città dove centotrenta milioni di persone vivono con lo spettro di un conflitto che potrebbe annientare le loro esistenze. Mentre la corruzione dilagante ingloba la vita politica e un monarca semi-umano getta le fondamenta di una nuova società, la morte a cui vi hanno predestinato potrebbe non essere la vostra unica opzione: dimore imperiali oltre la via della seta, autostrade informatiche, etnie robotiche sepolte dal tempo e cerimonie del tè in un pomeriggio d’autunno si mostreranno nel campo delle vostre possibilità. Fra i riflessi distorti di una metropoli dormiente e le notti di delirio nella ferocia di un’altra epoca, vi chiederete se le domande sulla vostra vita e quello che vi circonda valgano la pena di essere poste.
Occorre dire che, nonostante la sinossi e la biografia del giovane autore mi attraessero, mi sono ritrovato, non senza mille ripensamenti, ad abbandonare la lettura.
L’autore mostra una padronanza della lingua italiana efficace, e indubbiamente ha scelto un’arte, quella della scrittura, su cui ha il potenziale per potersi esprimere. Tuttavia, in questo scritto, dà l’idea di voler volare troppo in alto per le sue ali, mancando di empatia verso il lettore.
La narrazione unisce in un mondo futuro stralci dell’epoca latina e greca, e tematiche orientali, e riprende l’antica contesa, tutta italiana, tra quelli che potremmo definire Guelfi e Ghibellini. Elementi, questi, che potrebbero essere tutti punti di forza del romanzo, se non fosse che l’autore li incastona in un mondo con popolazioni, persone, ed eventi storici poco approfonditi e spiegati, al punto che il lettore si ritrova con poche coordinate per comprendere la storia.
E se già questo mostra una poca empatia con in lettore, potremmo anche dirci, fin qui, poco male. Con un po’ di sforzo mnemonico e intellettivo in più da parte del lettore (che non dovrebbe essere richiesto), il romanzo prima o poi potrebbe chiarire molte cose del contesto narrativo.
La vera pecca è che il romanzo poggia totalmente sul razionale, lascia sullo sfondo le emozioni, e i vissuti emotivi, dei personaggi. L’emotivo appare così non assente, ma letteralmente castrato.
La narrazione diventa pretenziosa, e arzicolata, con troppi giri di parole.
E per quanto ci si sforzi di proseguire, dando fiducia all’autore e alla sua cultura, ci si ritrova a non risuonare, a ripetersi quanta barba e quanta noia si provi in corso di lettura.
L’autore cita ad un tratto il Dionisiaco e l’Apollineo. È come se, nello stendere il romanzo, avesse scelto di appoggiarsi del tutto all’apollineo, castrando Dioniso. E personaggi diventano per la maggior parte inespressivi. Ho parlato volutamente di castrazione: perché le emozioni ci sono ma si perdono in giri di parole razionali e inespressivi, che trasformano il romanzo in una cronaca asettica di ciò che potrebbe essere il futuro.
Credo che l’autore, che mostra una cultura e una conoscenza notevoli, debba imparare ad ascoltare di più il suo Dioniso, facendo qualche passo indietro sul suo razionale. Perché la vera conoscenza si trasmette solo attraverso il giusto equilibrio tra emozione e ragione. Il resto è eccesso, vuota passione delirante in un caso, asettico nozionismo nell’altro.
Ed è, in ambo i casi, solo rinuncia.
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